La copertyina della rivista su cui apparve questo intervento, nel 1991

A proposito del primo principio

Riflessioni su un dibattito

Questo breve intervento fu pubblicato sulla rivista Per la filosofia n. 22 (mag.-ago. 1991), pp. 90/92 nella rubrica “Dibattito”.
I titoletti sono aggiunte successive.

Il presente intervento è stato suscitato da una riflessione su due articoli, apparsi a suo tempo su questa Rivista, e tuttora pienamente attuali, l'uno scritto da Bontadini [1], l’altro da Alessandro Emiliani [2]. Il tema di entrambi è quello della fondazione della metafisica: l’Emiliani difende un tipo di fondazione intuitivo, immediato, riecheggiando una tesi largamente «maggioritaria» nel neotomismo, secondo cui gli assiomi supremi si autofondano per la loro intrinseca evidenza; laddove Bontadini, ribadendo una posizione, che da sempre lo caratterizza, sostiene l’insufficienza della predetta tesi, che egli critica (nel presente caso) in Maritain, e ripropone la sua teoria che fonda in modo dialettico e sintetico la protologia.

Chi scrive ritiene si possano fare in proposito le seguenti considerazioni:

da un punto di vista esistenziale

1. Da un punto di vista esistenziale (valido sia per Bontadini, sia per Maritain: la filosofia non è mai separabile dal «tipo umano», dal soggetto, che la elabora) l'atteggiamento dialettico è connesso con un senso particolarmente acuto della drammaticità (che è altra cosa dalla tragicità) dell’esistenza, percepita quindi (filosoficamente) non quale ingenua, semplice e «tranquilla» unità, ma come permeata di contraddittorietà, di problematicità, di paradossalità.

L'atteggiamento immediatistico invece è caratterizzato da una rilassata e fiduciosa apertura sulla realtà nella sua datità, di cui però rischia di non percepire gli aspetti contraddittori, assolutizzando un immediato che andrebbe visto come momento relativo.

Ci pare allora che sia da ricercarsi una tendenziale (asintotica) sintesi tra questi due atteggiamenti, che, estremizzati, porterebbero l’uno ad una insana diffidenza verso il reale, l'immediato, l’oggettivo, da parte di un pensiero sdegnosamente arroccato nei suoi contrafforti dialettici, l’altro ad una ipotonica e «cattiva» accettazione di una oggettività nella quale il soggetto verrebbe a spappolarsi.

Del resto, aprendo una breve parentesi teologica, il filosofo cristiano sa (proprio in quanto cristiano), che il reale, oggetto della sua esperienza concreta integrale (e cioè soprattutto il mondo umano)è da un lato creato da Dio e perciò buono nella sua natura (il che giustifica la dimensione della immediatezza), ma d'altro lato è un segno, che rinvia ad Altro, e porta in sé il marchio drammatico della peccaminosa infedeltà all’Origine (il che giustifica la dimensione dialettica).p. 90

da un punto di vista culturale

2. Da un punto di vista culturale ci pare che l'atteggiamento «immediatistico» comporti una propensione alla pura teticità, alla affermazione pura e semplice del deposito tradizionale di verità, essendo piuttosto carente di quella giusta inquietudine, che dovrebbe invece spingere ad integrare tale deposito in un incessante dialogo con la novità storica; in altri termini esso manca, per dirla con Bontadini, «di portata sintetica» (art. cit., p. 6). Nello specifico caso di Maritain, ci pare si possa convenire, pur nella massima stima che portiamo al filosofo francese, che se un rischio ha corso Maritain, da questo punto di vista, è stato certamente quello di non fare più intimamente interagire la filosofia speculativa tomista (diverso discorso dovendosi fare per la filosofia politica ed estetica) con le domande e gli stimoli del pensiero moderno/contemporaneo, che egli tende a considerare piuttosto come una totalità di segno negativo [3].

Ci si potrebbe d'altra parte chiedere se l'atteggiamento dialettico non porti a sua volta all'eccesso opposto, di concedere troppo all’antitesi. Nel caso di Bontadini, in effetti, è noto che non sono mancati, da parte dei neotomisti più « ortodossi» sospetti e perplessità circa quello che è sembrato un cedimento all'idealismo. Da parte nostra ci limitiamo ad osservare che, qualunque giudizio si possa dare della «protologia» bontadiniana, in una prospettiva «tecnica» ed intrafilosofica, è certo che l'atteggiamento culturale del filosofo milanese non è stato affatto modernistico, ed egli ha dimostrato in più occasioni coraggiosa fedeltà al depositum tradizionale.

da un punto di vista teoretico

3. Infine, da un punto di vista teoretico, ci pare che l'impostazione immediatistica sia contrassegnata da una certa passività di fronte a quel dato, che occupa un posto di indiscusso primato; laddove l’atteggiamento dialettico postula una certa attività da parte del soggetto, che non si limita a registrare il dato oggettivo (empirico), ma in qualche modo lo previene e lo misura, collocandolo sullo sfondo di una totalità, che percepisce non essere da quello esaurita.

Ne consegue, come spiega Bontadini, il primato nel primo caso del principio di identità, che esprime la struttura ben circoscritta del dato, nel suo immediato farsi presente; mentre per il secondo caso è il principio di non contraddizione a predominare, quale principio sintetico, capace di abbracciare per la sua intrinseca dinamica l'intiero.

A tali impostazioni si possono far corrispondere le due diverse accentuazioni del concetto di verità: quella aristotelico-tomista, conformità dell’intelligenza alla cosa (alla cosa determinata), ad un particolare circoscritto del reale, nettamente ritagliato dallo sfondo della totalità, ad un ente, nella cui determinatezza soltanto emerge l'essere; e quella platonico-cusaniana, che vede la verità solo nel nesso con la totalità.

Ci pare evidente che entrambe le sottolineature abbiano la loro ragion d’essere: occorre dunque cercare, evitando ovviamente di cadere nell’eclettismo, anche in questo caso una sintesi. Le cui linee portanti ci sembrano le seguenti:

a) Il primato deve essere assegnato al dato, un dato che si impone alla nostra intuizione. Immediatamente. Negare questo significherebbe restare impigliati nella rete di un soggettivismo, da cui sarà poi impossibile uscire, fluttuare p. 91 senza appiglio solido (in balia perciò dei mutevoli venti delle mode culturali).

Che l’essere sia non lo si dimostra. Lo si vede (certo bisogna subito chiarire che tipo di vedere è questo: registrazione meramente empirica o consapevolezza sensitivo-intellettiva). Lo si intuisce necessariamente, per il fatto che c'è, anzitutto e fondamentalmente. E l'intelletto umano si trova interamente immerso nell'orizzonte dell'essere, che è il suo oggetto primum e notissimum.

Del resto per poter negare la negazione, che è negazione del positivo, se non si vuole restare nell'ambito del possibile, rinunciando al reale, occorre che il positivo sia dato. Per negare la negazione dell'essere (dialetticamente), occorre che l'essere si dia, che sia originariamente colto.

b) Occorre però poi chiedersi che cosa sia (ex parte obiecti) questo dato, l’essere che viene originariamente colto come onniavvolgente e onnipermeante. E quindi come (ex parte subiecti) esso sia colto.

Forse che l'essere, che ci si impone come evidenza originaria e intrascendibile orizzonte, è circoscritto agli enti attualmente oggetto di percezione empirica? Per cui l'evidenza primordiale potrebbe essere formulata così: questi oggetti sensibili, nell’attimo in cui li percepisco, sono identici a se stessi. Sarebbe una posizione fatalmente incline all’empirismo, perlomeno ad un moderato empirismo, che non ha difficoltà alcuna ad ammettere che ogni singola «idea semplice» sia identica a sé. In questo modo si sbriciolerebbe il reale in una molteplicità senza nesso.

Crediamo invece che si debba dire che l’essere (ex parte obiecti) si dà negli enti attualmente percepiti ma non come da questi esaurito: è contenuto, nell'immediato, un rimando alla totalità. Lo stesso Maritain del resto riconosceva che «la primissima certezza» intellettuale si riferisce a «tutta l'estensione dell'essere», che «implica esigenze eterne» [4].

Allora bisognerà dire che la prima certezza non è l'identità di fatto di queste cose sensibili attualmente sentite, ma l'identità di diritto dell’essere. E qui, come insegnava Bontadini, in questo richiamo (inevitabile, se si vuole evitare l’empirismo) all'aspetto di verità di Parmenide, scatta la « dialessi [...] tra il proclama del logo e il referto dell'esperienza » (art. cit., p. 8).

E chiaro poi che ad essere (ex parte subiecti) impegnata in questa conoscenza primordiale non è solo, né anzitutto, la sensazione, ma una sinergia sensitivo-intellettiva. Nel dato attualmente sentito dell'essere identici a sé di questi enti, il pensiero intus-legit l'universale e necessaria identità dell'essere.

Si tratta,lo sappiamo, di riflessioni che non hanno alcuna pretesa di organicità, e che indicano una direzione, piuttosto che una mèta nettamente definita. Ci auguriamo tuttavia che possano contribuire al dibattito auspicato da Bontadini stesso.

p. 92

note


[1] In Per la filosofia, n. 8, pp. 2-8.

[2] Ibidem, n.9, pp. 117-120.

[3] È l'opinione di Bontadini (art. cit., pp. 2-3, a proposito del modo sbrigativo, con cui il filosofo francese liquida la modernità; pp. 4-5, sul modo con cui Maritain intendeva il ritorno al tomismo, quale unica filosofia valida). Per un confronto tra il diverso approccio alla modernità tra Maritain e De Lubac (il cui concetto di «paradosso» ha delle affinità con la concezione «dialettica» di Bontadini) cfr. il nostro “De Lubac e la modernità”, in Per la filosofia, n. 18, pp. 17-30.

[4] Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1974, pp. 103-104.